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Il 27 gennaio: che senso ha?

27 gennaio 2007

Le nostre ricostruzioni del passato non sono oggettive. Come ogni individuo ricorda in maniera diversa, così succede a livello di gruppi, di comunità e di società: si svolgono nelle aule delle scuole, nei convegni e nei luoghi pubblici vere e proprie "battaglie mnemoniche" per il predominio di una o di un'altra rappresentazione del passato.
Uno degli elementi costitutivi della odierna ricostruzione pubblica del passato è la celebrazione della ‘giornata della memoria', con sovraesposizione mediatica e sovraccarico di significati politici e catartici. Questo modo di fare memoria non fa parte della tradizione ebraica. Il popolo ebraico ricorda la Shoah come la propria immane catastrofe, la sente come una ferita insanabile, ma non come una cesura nella propria storia. Agli ebrei, per commemorare i loro morti, sono sufficienti cinque minuti di raccoglimento all'anno, il tempo di recitare un kaddish, e questo è tutto.
Il misurato ricordo della Shoah all'interno delle comunità ebraiche di tutto il mondo è stato per anni considerato da intellettuali e politici cultura particolaristica. Oggi, invece, e questo è un dato su cui interrogarsi, è memoria universalmente abbracciata, anzi gestita dai poteri pubblici e dagli organismi internazionali.
Con la ‘giornata' si è prodotto un fenomeno nuovo: lo storico viene messo sotto pressione da una domanda sociale crescente che non riguarda solo i suoi studi, ma che cosa egli ha tratto da questi studi. I meccanismi sociali, ideologici, istituzionali, burocratici e anche tecnici della criminalità nazista sono ormai acclarati. Ci saranno ancora studi su quell'aspetto o quell'altro, e per l'Italia tengo a sottolineare l'importanza di alcuni pregevoli studi locali, ma il quadro d'insieme è tracciato. Siamo però là sempre a chiederci, storici e non, come sia potuta accadere, nel cuore d'Europa, una tale caduta di umanità. Nessun altro avvenimento come la Shoah presenta questa struttura atipica dove la conoscenza storica non va di pari passo con la comprensione del fatto umano in sé, anzi più avanziamo nelle conoscenze meno riusciamo a comprendere, non c'è principio di causa ed effetto che tenga. Questo senso di inadeguatezza si può trasferire alla pedagogia in generale. La scuola, le università, i centri culturali e le altre entità che si occupano dell'acquisizione delle conoscenze, della formazione dei comportamenti e della trasmissione degli schemi culturali devono preoccuparsi anche delle modalità attraverso le quali le generazioni successive s'approprieranno delle esperienze delle generazioni precedenti. Disponiamo oggi di una notevole mole documentaria di memoria, che ci lascia però perplessi per il futuro e incapaci di definire tali modalità.
Le formule ‘non dimenticare', 'mai più', ‘dimenticare la storia è essere condannati a ripeterla' e altre di tal genere presentano una grande attrattiva, ma occultano il vero problema che è davanti ai nostri occhi: il disagio che incontreranno le nuove generazioni cresciute in presenza di una memoria massiccia e afflittiva, mentre dopo la Shoah le ingiustizie, le emarginazioni, i massacri hanno continuato a prodursi. Ciò rende molto problematica una pedagogia fondata sulla Shoah. La celebrazione del 27 gennaio sconta questo problema, che è destinato nel futuro ad ingigantirsi.

C'è un elemento, peculiare all'Italia, che favorisce l' interesse per la ‘giornata'. Sulla Shoah tutti sono d'accordo nell'esecrazione di quello che è successo - destra, sinistra, intellettuali, politici, letterati, giornalisti - è questo in fondo un mezzo per essere finalmente d'accordo sul passato e per non lottare per memorie né divise né condivise: la Shoah è un'abiezione, non si discute. Il tema non è e non è mai stato controverso, non è una questione conflittuale nel panorama culturale italiano per il semplice fatto che qui da noi la fase della riflessione sulle responsabilità italiane non è mai stata percorsa, la si è saltata a pie' pari, dal dopoguerra fino agli Anni Ottanta. L'immagine prevalente passata fino ad allora era quella del "buon cuore" degli italiani a fronte della crudeltà dei tedeschi, la colpa di tutto era stata altrove e in un momento che non apparteneva al fluire della storia nazionale, era una storia "altra", tirata da fili di cui gli italiani non avevano nessuna responsabilità. Quando la storiografia ha rimesso a posto le cose, il dibattito politico era ormai al punto che i pubblici poteri non ebbero difficoltà a riconoscere, con anche troppa faciloneria, gli errori del passato e a espungerli contemporaneamente dalla propria esperienza. In realtà, siamo in preda ad un eccesso di commemorazione e di memoria, senza però aver preso davvero responsabile coscienza del passato. Come dice bene Anna Rossi Doria, una memoria feconda è una memoria ‘responsabile', cioè quella capace di farci ritenere responsabili della nostra storia nazionale, anche di quella che ha preceduto la nostra vita, e se occorre di rispondere per essa.
Al contrario che in altri Paesi, qui da noi il meccanismo non si è mai innescato. Se no, perché mai i nostri governanti farebbero tanta fatica a riconoscere agli ebrei, a tutti quanti gli ebrei che erano già nati nel 1945, i torti inflitti dalla nazione di allora? Perché tanti perseguitati dovrebbero ancora faticare per ottenere una pensione riparatoria? Nella tradizione ebraica, per essere perdonati, non è sufficiente chiedere perdono, bisogna fare ammenda pagando in prima persona. Vorrei per il 27 gennaio meno commemorazioni ufficiali, meno concerti in onore, meno discorsi, e più fatti concreti. Solo così si potrà dire che la nostra memoria nazionale è anche memoria responsabile.
Ma non sono solo i singoli a dover essere riparati. E' urgente che un istituto storico come il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, che tanto ha fatto con le sue ricerche perché la storia della Shoah in Italia fosse scritta e la memoria fosse dotata di un presidio scientifico, sia mantenuto e protetto istituzionalmente come altri analoghi Centri in Europa, e non lasciato solo, a sopravvivere stentatamente. La "buona" memoria di un paese, non si sfugge, si misura solo attraverso la sua buona coscienza civile.

 

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