Chiara Ferrarotti

con Nessun commento

1966-2016

Chiara, oltre che possedere una vita ebraica di grande coscienza e profondità, era una brava ricercatrice di storia contemporanea.

Lavorava al CDEC dal 2005 e mi è stata vicinissima collega dal 2010. Con me ha portato avanti il progetto di ricerca sugli ebrei salvatisi durante la Shoah. Insieme, abbiamo realizzato centinaia di interviste in tutta Italia ad anziani in grado di raccontarci la loro vita. Realizzavamo spedizioni massacranti, di 3-4 giorni per volta, in varie città e ne tornavamo sempre stanche e soddisfatte. A volte, eravamo riuscite a completare 6-7 interviste in un solo giorno. Ricordo come mostrava trionfante sulla sua scrivania al CDEC i mucchi di cassette registrate di cui, spiritosamente, faceva torrette, e io a chiederle:” Ti credi?” e lei “eh, abbastanza”. E poi, ricordo la quantità esagerata di caffè e di biscottini che ci toccava consumare per non offendere le varie padrone di casa che visitavamo. Ogni volta si ricominciava: “gradite un caffè?” e noi, a guardarci negli occhi e a dire: “sì, grazie”.

Una volta, a Genova, ci siamo fotografate sotto la pioggia, davanti ad un chioschetto di fritture. Quello era il nostro pasto in piedi, per risparmiare, e scherzavamo sul trattamento “non da dirigenti” che il nostro Istituto ci riservava. E poi: le orribili pensioncine che sceglievamo tra le meno care in ogni città. Io, alla fine della giornata, ero sempre morta di stanchezza, lei riusciva ancora a leggere pesanti trattati di filosofia ebraica, in italiano o in inglese, che si portava nello zaino.

E ricordo ancora una giornata terribile, in una Roma bloccata da uno sciopero: noi in mezzo al traffico infernale, sotto una pioggerellina, correre come matte a piedi, cariche di microfoni e cineprese per non mancare all’appuntamento. Senza Chiara, la sua pazienza, la sua intelligenza, la ricerca “Memoria della salvezza” non avrebbe avuto la svolta fondamentale che ha avuto. Quando una persona dai capelli grigi transitava dal CDEC, poteva essere sicura di cadere vittima delle nostre mire inquisitorie, allora ci guardavamo in faccia ridendo e lei faceva il gesto del condor che piomba sulla preda. Chiara era una donna silenziosa e, mi permetto di dire, oggi è così che si fa cultura; il suo non era mai sentimentalismo ma solo sensibilità. Non le piaceva l’atonia morale e guardava con ironica sufficienza  coloro che, non sentendosi investiti di nessuna missione nella vita, si annoiavano o sprecavano il tempo in futili faccende. Persona tenace e valorosa, ha affrontato con leggerezza la sua malattia, chiamava “tagliando alle mie parti bioniche” i periodici, massacranti, controlli cui doveva sottoporsi, poi diceva, il tal giorno torno e faccio questo e quello. Siamo state vicine pur permanendo sempre tra noi zone opache di non conoscenza, dovute alla sua estrema riservatezza. Molte cose di lei le ho apprese dopo la sua morte, interessi insospettati che non mi hanno sorpresa, ma che mi hanno lasciato un po’ di amaro per non aver avuto l’energia di conoscerli, quando avremmo avuto il tempo di parlarne e condividerli. Sapevo che frequentava gli ambiti corsi di ebraismo di Haim Beharier, filosofo e ermeneuta, e anche di questo parlava poco. Usciva dal CDEC  alle 17,30 e poi gironzolava per librerie in centro, fino all’ora della lezione. Prediligeva scrittori americani che spesso leggeva in lingua originale per tenersi in esercizio con l’inglese e di questo, al CDEC, non mancavamo di approfittarcene e di chiederle continuamente di tradurre in inglese questo o quel testo.   

Ragionevole, coerente, sembrava quasi che l’instabilità generale la rendesse ancora più salda, non c’era in lei ombra di cinismo o di egoismo, solo compassione e solidarietà.

Era dotata di straordinario senso della misura, unito a intelligenza e cultura. 

Chiara era anche una grande sportiva, partecipò  alle edizioni del 2014 delle maratone di New York e di Gerusalemme e nessuna distanza in bicicletta era troppa per lei.

Aveva anche un lato filosofico pregnante e noi colleghi del CDEC contavamo su di lei per l’annuale lezione, sotto le frasche della Succà montata nel cortile di via Eupili. Preparava lezioni che ascoltavamo attorno ad un tavolo, davanti a deliziosi piatti preparati da ciascuno di noi; ne uscivamo sempre ammirati da tanta chochmà (sapienza), e spiritualmente arricchiti.

E’ mancata  nella data ebraica del 17 Elul 5776, nella settimana in cui viene letta pubblicamente la porzione di Torah (Parashà) di “Ki Tetzè”. Questa Parashà  fa parte del quinto libro della Torah, chiamato Devarim. E’ un libro grandioso che ripercorre, talvolta in forma poetica, tutte le tappe del lungo cammino verso la libertà e verso l’incardinamento del popolo ebraico nella terra promessa,  sulla base del codice di comportamento e di giustizia dettata dal Signore stesso. E’ uno scritto di formazione che segue il farsi della nazione dai suoi primi vagiti (siamo una nazione? Abbiamo un destino comune? Chi poteva immaginarsi una tale identità in un popolo di schiavi, senza diritti, dedito solo al raggiungimento della pura sopravvivenza quotidiana?) all’acquisizione della maturità e della consapevolezza.

Sono ormai trascorsi 40 anni dall’uscita dall’Egitto, il popolo ha vagato nel deserto, la vecchia generazione non c’è più, sono i giovani nati nel deserto ad essere degni di entrare nella Terra, mondi dalla schiavitù e dalle immoralità che la schiavitù comporta, materiali e morali. 

 Mosè ha 120 anni e si appresta a morire (personalmente, non avevo mai indugiato a meditare sul fatto che l’epica uscita dall’Egitto si sia svolta guidata da un ottantenne Mosè, pieno di energia), il suo compito, quello di formare un popolo nuovo con nuovi valori basati sulla Torah e di portarlo alle soglie di Eretz Israel, è terminato.

Non tutti sanno che Chiara, ogni settimana, produceva uno scritto con commenti alla Parashà settimanale dei Maestri. Che mandava per e-mail agli amici.  Il suo testo portava in epigrafe: “Mi kol Melammedai Hiskalti” “Da tutti coloro che mi hanno insegnato ho imparato”.

E che passuk della Parashà di “Ki Tetzè” Chiara ha scelto di commentare? Questo: “Lo tir’è et hamòr achìcha o schorò nofelim ba’ddérech vehìtalamta mehèm, hakèm ttikim imò” “Non scorgere l’asino di tuo fratello o il suo bue caduti sulla strada e fare conto di non vedere; devi unirti a lui per rialzarli”.

Questa scelta ci dice qualcosa dell’amore di Chiara per gli animali – sul monitor del suo computer campeggiavano sempre lupi e lupacchiotti fotografati in diverse posizioni – ma la scelta di questo brano ci dice anche molto sul suo carattere.

Analizzando questo testo, la mente corre ad un’altra Parashà, quella di Mishpatim dove il passuk 23/5 recita “se vedi l’asino del tuo nemico soccombere sotto il proprio peso, guardati bene dall’abbandonarlo, al contrario, lo aiuterai a scaricarlo”, mentre qui il testo dice “l’asino di tuo fratello”. Questo ci insegna, dice Rabeinu Bechayè nel suo commentario alla Torà pubblicato a Pesaro nel 1507, che se uno era tuo nemico, deve tornare ad essere tuo fratello nello sforzo congiunto di sollevare l’asino, e che l’odio sarà dimenticato e l’amore deve essere coltivato.

Qui ci sono tre concetti: l’obbligo nei confronti dell’animale per risparmiargli il tormento, la protezione della proprietà privata (il nemico/fratello possiede l’asino e il bue) e l’offerta di assistenza. Sono temi valutati come obbligo generale che regola la società. La Torà è lontana dall’eccesso emotivo che esige che ciascuno rinunci al suo ego e sacrifichi altruisticamente la sua anima. Non lo esige come regola generale di vita sociale condivisa e non sostiene che un’azione buona sia segnata esclusivamente dal sacrificio di sé. Il principio sociale ebraico obbliga chiunque, affermata la piena forza morale dell’interesse individuale per la propria esistenza e indipendenza, a interessarsi all’altro.

Sono parole di Rabbì Shimshon Hirsch, che Chiara ha fatto sue, e che lei stessa praticava con il suo esempio di magnifico equilibrio.

Un’ultima cosa: un giorno Chiara è arrivata in ufficio con un piccolo condor di pelouche che mise tra i nostri due tavoli come simbolo del nostro lavoro, quel piccolo condor che spunta oggi da una tazza dietro al mio computer  me la ricorda ogni giorno e non consola la mia nostalgia di lei.