Miriam Novitch

con Nessun commento

1909 – 1990

Miriam aveva una rete di amici in tutta Europa che, nel suo girovagare da una capitale all’altra, la stimavano e l’accoglievano. Nel 1977, la nostra casa di via Vincenzo Monti a Milano divenne la sua base d’appoggio locale. La portinaia la conosceva, sapeva che era mia amica e quando si presentava con la sua valigetta, il suo immancabile capellino di velluto nero, pallida e stanca, le dava le chiavi e la faceva salire. Talvolta, quando rientravamo in casa, mio marito Shimon e io, vedevamo le sue scarpe nel corridoio e capivamo che era arrivata, che era stesa sul letto al buio, sfinita, di ritorno da una delle sue imprese e non la disturbavamo.

In quei tempi, dalla fine della seconda guerra mondiale alla fine della guerra fredda 1989-1991, nella nostra Europa, c’era la cosiddetta cortina di ferro, una linea di confine completamente sigillata, che divise in due zone di influenza il continente. Nei Paesi dell’Est non ci potevi andare se non per casi specialissimi o se avevi giustificazioni sufficienti per affacciarti in quelle contrade o, magari, anche come semplice turista, ma con itinerari rigidamente controllati dalle autorità.

Miriam, invece, non so come, ci riusciva: con pazienza, con testardaggine voleva tornare nei Paesi che avevano visto i massacri di ebrei: l’Ucraina, la Bielorussia, la Lituania, la Russia, in sostanza tutta l’Unione Sovietica, per cercare di raccogliere le prove di ciò che era accaduto per mano nazista tra il 1941 e il 1945, prove dagli stessi tedeschi fisicamente occultate e, in seguito, ri-occultate ideologicamente, per ragioni di propaganda anti-occidentale, dai responsabili politici dell’epoca. Miriam girava per quei Paesi portandosi beni di consumo che in Occidente avevamo tutti a portata di mano: calze di nylon, caffè, pappe precotte per i bambini. Li usava come merce di scambio per una fotografia, per un oggetto dissepolto dalle fosse comuni, per un documento tedesco. Un giorno arrivò a casa nostro tutta tremante, priva del cappotto. Le chiesi che cosa era successo: “l’ho lasciato in Bielorussia”, mi rispose, “tra questo disegno prodotto in un ghetto e il mio cappotto, ho preferito il primo”. “Ora dammi tu un cappotto”. Davanti a tanta abnegazione, chi glielo avrebbe negato?

Lavorava senza sosta.  Se il suo kibbutz, Lohamei Haghettaot in Galilea, ha oggi un bellissimo museo di arte prodotta in condizioni estreme dalle vittime, lo dobbiamo soprattutto a lei.

Miriam proveniva da una cittadina della Bielorussia, dopo un periodo in Francia a fare la partigiana, non riconosciuta come ebrea, fu imprigionata nel campo di concentramento di Vittel dove incontrò il poeta polacco Itzhak Katznelson là rinchiuso assieme al figlio in attesa di essere liberato perché in possesso di un passaporto (falso) dell’Honduras. Il poeta stava scrivendo lo straordinario poema in yiddish “Canto del popolo ebraico massacrato”. Miriam lo convinse a imbottigliare il manoscritto e a seppellirlo sotto un albero. Katznelson fu deportato ad Auschwitz ed ivi assassinato, Miriam, dopo la guerra, tornò sul luogo e recuperò il poema. Lo portò in Israele e lo fece pubblicare in molte lingue. Ve n’è un’edizione anche in italiano.

Miriam, nel 1949, contribuì, assieme ad una comunità di sopravissuti alla Shoah, a fondare il kibbutz che tutti vollero chiamare “Lohamei Haghettaot”, cioè: “Combattenti del ghetto”, in memoria dei partigiani ebrei che combatterono nei ghetti polacchi e russi.

E non solo il nome di quel luogo in Galilea, ma le persone che lo abitarono e i loro figli che lo abitano tuttora, sono il simbolo di quanto la memoria sia feconda e come da quella possa nascere il riscatto dal dolore e dall’umiliazione. Un vero salto verso il futuro.

Miriam compì anche studi sullo sterminio degli zingari sotto il nazismo, pubblicandoli nel 1968.

Nel 1979, concepì a Milano, mentre si trovava negli uffici del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, una mostra di dipinti, acquarelli e disegni prodotti da ebrei in prigionia in procinto di morire. Alcuni degli autori erano professionisti veri e propri, altri erano dilettanti, le loro opere erano state scovate da Miriam stessa in nascondigli, sotto terra in foreste, fra macerie, e riportati alla luce: resistenza spirituale lei chiamò quella attività artistica e così si chiamò uno straordinario volume di dipinti, uscito in Italiano nel 1979.

 Di quella bella mostra che si svolse alla Biblioteca Trivulziana a Milano, io fui curatrice dell’esposizione, del catalogo e della ricostruzione del contesto storico. Il grande architetto Bruno Zevi, in una memorabile serata, ne pronunciò la prolusione.

Liliana Picciotto, 2024